venerdì 22 maggio 2015

                    Tornando al 1937.......

Rivoluzione Fascista - Foglio d'ordini della Federazione senese dei Fasci di combattimento del 21 novembre 1937
Nel I anniversario della scomparsa di Vittorio Leoncini. Un fortino in terra Imperiale intitolato al nome del glorioso caduto

Gondar, novembre
Ricorre in questi giorni l'anniversario della morte di Vittorio Leoncini, deceduto a Siena in seguito a grave malattia contratta in Africa Orientale durante le operazioni che portarono alla conquista dell'Impero.
Il ricordo di Vittorio - che ci fu amico, compagno di fede e camerata carissimo - e' vivo in noi come lo e' in coloro che conobbero, amarono e salutarono il Martire oscuro, che tutto se stesso sacrifico' alla Patria e al Fascismo.
Appartenente al primo nucleo di avanguardisti senesi, Vittorio Leoncini, a soli 14 anni, partecipo' alla mobilitazione per la Marcia su Roma e, sempre, prima e dopo il trionfo della Rivoluzione, porto' nel Movimento rigeneratore il valido contributo della sua fede inestinguibile, della sua ardente vitalita' e della sua vibrante giovinezza.
In una torbida giornata, Vittorio - unitamente ad un altro glorioso caduto in A.O.: Danilo Giachetti - dono' alla Patria il contrinuto del proprio sangue.
Uno contro venti, una sparuta pattuglia di squadristi affrontava nei Pispini una massa di energumeni e li sgominava. Vittorio era tra i piu' audaci. E qui si ebbe quella ferita della quale semre ando' orgoglioso.
Ai primi cenni di mobilitazione per la campagna africana, Egli si arruolo' nella I Divisione Camicie Nere "23 Marzo".
Malgrado le sue precarie condizioni di salute, il Leoncini volle e seppe adempiere le dure fatiche del campo e quelle durissime dei primi mesi di operazioni.
Proposto piu' di una volta per la smobilitazione, tanto' insistette preso i comandi per rimanere al posto del dovere.
Sofferente sempre, di tanto in tanto fatto segno degli attacchi del morbo che minava la sua non forte fibra, fu esempio a tutti di elevati sentimenti fascisti, di spirito di abnegazione e di sacrificio.
Vinto, infine, dal male che non perdona, fu costretto al rimpatrio. E piangendo se ne parti' da Macalle', due mesi dopo la conquista di questa citta'.
A suo tempo scrivemmo di Lui, della sua opera in A.O. e del forzato ritorno in Patria. Scrivemmo, dopo averlo accompagnato all'autoambulanza, dopo averlo abbracciato e dopo aver confuse le nostre lacrime con le sue.
Non dovevamo piu' rivederlo, povero Vittorio!
Le Sue lettere - piene di rimpianto e sature di entusiasmo - ci ciunsero alcuni da questo Ospedale e da quella casa di cura. Poi la notizia ferale: Vittorio non e' piu'.
Ad Ualdia fu una giornata di lutto. la "tenda Rino Daus" ammaino' la sua fiamma di combattimento e tante Camicie Nere - sempre forti di uomini, di soldati e di combattenti - piansero come fanciulli.
Vittorio era scomparso. Il Martire oscuro, che tanto aveva sognato la bella morte in combattimento, era stato vittima della tragica beffa del destino, che lo volle morto in una corsia d'ospedale.
Povero, caro Vittorio!
Oggi Egli rivive. Rivive in quelle terre che furono testimoni del suo ineguagliabile sacrificio: rivive, merce' il culto che della di Lui memoria hanno i vecchi compagni d'armi. In un'opera di guerra, in un fortino che si intitola al Suo nome.
Un plotone della 2.a compagnia del 97.o Battaglione CC.NN. al comando di un ufficiale che fu amico e camerata dello Scomparso, ha eretto le solide mura che, ad ovest di Gondar, dall'alto di un colle, cingono un campo e dominano la valle. Ed hanno voluto, le Camicie Nere, che la loro fatica avesse un nome, che a ricordo della loro opera rimanesse nel tempo e si perpetrasse la memoria di Colui che giovinezza e vita sacrifico' al Fascismo e all'Impero.
Il "Fortino Vittorio Leoncini", da dove scriviamo, e' quindi stato battezzato dai Legionari senesi con il nome di un senese, di uno dei piu' bravi, piu' meritevoli senesi.
E questo nome, caro ai nostri cuori, dato ad un'opera di guerra e' come un simbolo sacro. Sembra che fra le mura della fortificazione aleggi l'anima di guarra di Vittorio: sembra che l'Eroe sia presente tra noi per indicarci con il Suo esempio e per riscaldarci alla fiamma della Sua fede.
A sera, quando le tenebre ci avvincono, pare che una luce brilli nel forte ad illuminarci e proteggerci. e' Lui, e' Vittorio, che di lassu' ci guarda coi suoi occhi fiammeggianti. E' Lui - il Nostro Martire - e non e' il ruscello scorrente a valle - che ci culla con un mormorio sommesso e commovente che ci dice continuo:
Presente...Presente...Presente

Dino Corsi


Il Telegrafo del 17 luglio 1941
Giornate di guerra dei legionari senesi dal fronte giulio

Il motto degli avi che in Montalcino tennero alte le insegne della repubblica ghibellina e della patria libertà, quel motto che le donne senesi scrissero a lettere d'oro sulla nera fiamma di combattimento da loro offerta ai legionari nella primaverile mattinata di un'artdente vigilia guerriera, la frase che simboleggia il valore delle nostre genti è stata per mesi e mesi, è e sarà sempre l'espressione viva delle virtù militari dell'unità volontaria che dalla città lupata è espressione di forza e di volontà combattiva.
"A non piegar l'insegna Siena insegna". Il motto, divenuto il credo dei legionari, si è affermato in tutta la sua grandiosità. L'insegna non si è piegata; e l'insegnamento della terra madre è sttao appreso ed applicato dai figli soldati.
I legionari del 97.o, inquadrati nei ranghi della "Ardita ed ardente" Divisione "Bergamo", hanno vissute da attori le fulgide giornate della breve campagna sul fronte giulio. Han dato, le camicie nere senesi, il loro modesto quanto valido contributo alla redenzione della Dalmazia. Prima, durante e dopo il combattimento, nelle opere di guerra e di pace, sempre a nessuno secondi, i figli di Siena han mantenute tutte le promesse, realizzate tutte le speranze e, servendo con dedizione assoluta la Patria, onorata la città nostra e tenuta alta l'insegna della loro fede fascista, della loro passione italica e del loro ardore glorioso.
Noi che avemmo la ventura grande di appartenere ai quadrati reparti degli "assaltatori" senesi, noi che questi reparti abbiam dovuti lasciare per servire altrove la Patria, noi che col pianto alla gola abbiam preso commiato dalla falange dei fratelli legionari, noi oggi consideriamo che il miglior saluto nostro alla bella famiglia che ci ebbe fra i suoi figli sia quello di rievocare, seppur succintamente, la vita e le opere del Battaglione in guerra.

* * *


La Settimana Santa fu per i legionari senesi Settimana di Passione. Passione che tormentava gli animi e faceva palpitare celermente i cuori. 6,7,8,9...e via. Giornate di aprile. Primavera di guerra. Nella notte tra il 5 ed il 6 il primo ordine. Sotto il diluviar della pioggia, tra il brontolio dei tuoni e il saettar dei fulmini, i reparti lasciano i campi e gli accantonamenti per prender posizione sulla linea di confine.
Pattuglie di arditi, volontari tra i volontari, si spingono avanti a riconoscere il terreno. Piove a dirotto, il fondo è erto, sassoso e cosparso di roveti che formano un naturale sbarramento di reticolati nuovo genere; qua e là un precipizio, un pendio scosceso, mille ostacoli ovunque; e la notte è nera. Impossibilmente nera. Ma chi se ne frega! Ogni legionario ha nel cuore una fiamma che illumina la via; quante, quanta luce in quella notte di tempesta!
Le pattuglie giungono ovunque devono; i reparti si attestano sulle posizioni assegnate. Si scavano trincee e si costruiscono ripari e piazzole per le armi automatiche. Lo schieramento è difensivo e lo srà per alcuni giorni. Si lavora tra il fango, nell'ossessione delle tenebre più profonde; il vento eglido taglia le carni; il nevischio, che cade misto alla pioggia, acceca; no si vede ad un metro di distanza, ma si sente; si sente il picchiettar degli attrezzi, l'ansimar degli uomini è come una musica solenne che esalti il lavoro, si sentono gli scatti delle "Breda" leggere e pesanti nell'atto del caricamento.
Poi il silenzio. Ore lunghe, interminabili, di attesa. Acqua, nevischio, poi neve. Ma su tutto, sopra a tutto, la gioia, la gioia grande che da l'avvicinarsi del momento tanto atteso.
L'alba trova le Camicie nere irrigidite al posto del dovere. Pronte a tutto. E la giornata del 6 non finosce più. Siamo in guerra, ma tutto è calmo sul fronte. Il campanile di Casta è lassù, sul saliente montano che si erge a minaccia di Fiume, invitante col suo candore e col giocondo squillare dei bronzi. Più in là i casermone dei "graniciari", poi il forte, l'osservatorio, le ridotte nemiche...
Gli uomini fremono nel desiderio dell'attacco. Ma non si può, non si deve attaccare, l'ordine è preciso: schieramento difensivo. E le mani non stanno ferme sul calcio del moschetto, e le dita palpano rumorosamente le bombe ed accarezzano la canna della mitragliatrice.
Ancora una notte di attesa, ancora un giorno, il sette, un altro, l'otto....Si rettificano le posizioni secondo il movimento del nemico. I reparti sono in moto continuo: Jussici, Mattuglie, Cobri, quota 327, Giordani, Ruccavazzo, Rifugi Rossi, quota 729. Quote, villaggi, borgate. Su e giù, in lungo e in largo. E sempre il freddo, la pioggia, la neve. Verrebbe voglia di mandar la disciplina a quel paese e varcare la linea dell'assurdo confine ed andare a scovare i serbi che non si decidono ad attaccare. Ma il nove le cose cambiano. Nell'aria c'è davvero odor di polvere. Si mormora che abbandoneremo lo schieramento difendivo e passiamo all'attacco. Dapprima si mormora, poi se ne ha la certezza.
Tutto il fronte è in movimento. Le artiglierie divisionali si portano in posizione avanzata, quelle di corpo d'armata si piazzano in prossimità di queste. La ricognizione aerea entra in azione nel primo mattino. E nel pomeriggio le prime puntate oltre confine. Le pattuglie di esplorazione di aprono il varco attraverso i reticolati e sono incontro al pavido nemico, affrontano le avanguardie serbe, le sgominano e tornano coi loro carichi gloriosi e sanguigni.
Le messi verdeggianti rosseggiano qua e là di sangue italiano, di sangue senese. Gli esplaratori del 97.o tornano e portano il corpo esanime di un eroe: Ettore Neri. Nel campo non si piange: si affilano i pugnali per la vendetta. Il nome del caduto è scritto su tutte le case del Carnaro, sottolineato dai versi che sublimano il sacrificio dell'intrepido legionario:
"Partì cantando come il Duce vuole,
morì ridendo colla faccia al sole"

Ancora una notte di veglia trepidante: di tanto in tanto un allarme, una sparatoria. Si va avanti? Non i va?...Non ancora, ma andremo presto, prestissimo.
Dieci aprile: Giovedì Santo. Pronti all'attacco. In attesa di ordini. I legionari mordono il freno. Il prolungarsi dell'attesa è un tormento inenarrabile..."Stanotte?" si chiede con ansia, "no, domani", ci sentiamo rispondere.
Scende la notte, l'ultima di attesa, ed il fronte si anima. Ombre che vagano, carriaggi che passano, rombar di autocarri, scalpitare di cavalli, lento incedere di pattuglie, portaordini che vanno e vengono...L'atmosfera è quella del combattimento. Lo sentiamo. Finalmente l'alba! Le ore scorrono lente nell'ansia del momento. Nessuno pensa a mangiare, nessuno pensa alla posta...sguardi e cuori sono oltre lo sbarramento che ci preclude la via. Andiamo? Si, questa volta andiamo!
I guastatori del genio aprono il varco nella barriera di fili di acciaio e i legionari irrompono oltre confine. E' la liberazione, la fine di un incubo.
I mitraglieri della "97.a" appoggiano l'avanzata del Battaglione che procede bersaglierescamente malgrado la rabbiosa reazione avversaria; le artiglierie di tutti i calibri accompagnano i balzi degli assaltatori, i morati lanciano i loro messaggi di distruzione. Una, due, tre ore di fuoco intenso. Sinfonia vibrante di scoppi e miagolii di proiettili. Viva la guerra! Vien fatto di gridare nell'ebbrezza del momento.
La reisistenza del nemico si fa sempre più debole. E' giunto il momento dell'attacco decisivo: l' "A noi" echeggia potente, i pugnali ballano al sole e volano le bombe a mano. Avanti! Il Battaglione è lanciato: nulla può fermarlo, nessuno lo fermerà.
Un balzo, un altro ancora: ecco Castua. Castua finalmente è italiana!
Il campanile candido si anima e le campane squillano a festa. E' il Venerdì Santo, ma il buon Dio perdonerà il buon campanaro che volle salutare l'ora delle redenzione tanto sospirata.
Castua liberata è superata rapidamente. A passo forzato il battaglione marcia all'inseguimento del nemico. Per ore ed ore si va attraverso la campagna: ovunque sono le trace della precipitosa fuga dei serbi che, coi pugnali legionari alle spalle, tutto abbandonarono, armi e munizioni, vettovaglie e indumenti, per poter salvare almeno la pelle.
Si pernotta all'addiaccio: tre ore di riposo. Poi, partenza. Convergiamo su Fiume. Obbiettivo Sussak. La mattina del 12 la città che fu sentinella d'Italia è attraversata dalle formazioni legionarie che, varcato il ponte divisorio, dilagano nella zona urbana già jugoslava. Nessuna resistenza. Ma occorre inseguire, agganciare il nemico in fuga.
Avanti giorno e notte. Per tanti giorni, per tante notti. Monti e valli, pietraie e fango, sotto la pioggia, sotto la neve, col sole, col vento, sempre pieni di baldanza, i legionari procedono sulla via della vittoriosa conquista. Si mangia quando si può, ci riposiamo quando è possibile e si cammina, si cammina sulle orme di un esercito in disfatta.
Giornate di fatiche e privazioni, giornate di fatiche e di stenti, ma anche luminose giornate di soddisfazioni impagabili e di un'intensa, orgogliosa, gioia.
Il 97.o al completo di tutti i suoi effettivi, porta a termine la marcia superando ogni sorta di ostacolo e vincendo tutte le avversità.
La fine delle operazioni di guerra trova i legionari senesi ancora protesi in avanti ed anelanti nuove e più dure prove, e vede erigersi in alto, nella luce del trionfo, l'insegna che mai si piegherà.


Dino Corsi

Il Telegrafo del 4 giugno 1941
E' nata all'ombra del Tricolore, Romana Vittoria...

Zarnovic, Maggio
I reparti legionari dell'89.o Btg. di Volterra e della 97.a Mitraglieri di Siena, continuando la loro opera di italianizzazione e redenzione della zona momentaneamente affidata al loro presidio, vanno sempre più oprando nell'interesse e per il bene delle popolazioni locali che, riunite alla Grande Madre, sanno apprezzare l'attività benefica delle Camicie Nere toscane.
La Milizia, quei soldati che i dalmati chiamano fascisti, in un giusto riconoscimento che torna ad onore del Fascismo stesso,; i militi della balda legione di assaltatori che, in un giorno destinato alla Storia avvenire, ruppe l'ingiusto confine, combattè e vinse; i componenti la schiera volontaria che, dal martoriato Carnaro, marciarono verso la vittoria, sono oggi, nella Dalmazia ritornata italiana, manifestazione fattiva di bene, di ogni bene. E profondono, colla innata gentilezza dei loro animi, i tesori della stirpe italica che sono una raccolta sacra di umano agire e di civiltà.
Chi scrive ha avuto e ha sovente modo di avvicinare i nativi e di valutare la sensibilità di un popolo che oggi, rivivendo e tornando libero, manifesta come può la sua riconoscenza al Genio che da Roma diffonde la sua luce redentrice ovunque l'Italia sia presente coi suoi figli migliori: i soldati.

* * *


Le Camicie nere che, in attesa di compiti più consoni al loro spirito guerriero, sono oggi a presidio della Dalmazia, comprendono la grandezza del loro compito di pace come seppero ieri e sapranno domani assolvere, sulla linea del fuoco, i compiti speciali, e perciò maggiormente amerevoli, devoluti agli assaltatori, a quelli cioè che, orignariamente, si chiamarono e furono "arditi".
Dopo la rottura del vecchio confine, dopo l'azione guerriera, dopo, infine, la rapida quanto dura avanzata tra monti e valli, i legionari si prodigano oggi, con tutta la gentilezza delle genti toscane, ad una fattiva opera di propaganda e di italianità.
Qui, nel villaggio ove il tricolore sventola, sacro ormai agli abitanti della zona, come sempre lo fu ai redentori della zona stessa, legionari volterrani dell'89.o e senesi della 97.a Mitraglieri, le bandiere della Patria nostra - simulacri di fede ardente e di indomità volontà - garriscono a festa nelle solatie giornate di questo maggio che, a noi figli o fratelli degli eroi di Vittorio Veneto, ricorda il mese sacro alle fortune della Patria; quel mese nei cui giorni si forgiò l'inizio dell'avvenire di un popolo, il nostro popolo, il quale, iniziata la marcia verso l'avvenire e la fortuna patria, non doveva più arrestarsi, come non ha più sostato.
La Dalmazia italiana, sogno di pochi asceti un tempo, visione lungimirante della nostra gioventù, è oggi la terra finalmente italiana dalla quale scriviamo per dire e far comprendere a chi ci segue e ci legge con passione, la grandezza dell'opera che l'Italia, la nostra divina Italia, sta compiendo nella regione a lei tornata mercè il valore delle armi fasciste.

Oggi, alle genti dalmate, il Duce distribuisce la farina per la confezionatura di quell'alimento principe per gli uomini che è il pane. Il Duce, e con lui l'Italia, è presente nel cuore dei legionari che, predisposti alla distribuzione del sacro alimento, si prodigano e profondono il loro animo buono nell'offerta di ciò che la nuova Patria - madre povera ma affettuosa - sa dare ai figli che tornano nel suo tanto amoroso seno.
Noi abbiamo la fortuna e la gioia di essere tra coloro che, per ragione di servizio, provvedono alla distribuzione. Noi, unitamente ad un gruppo di Camicie Nere, compiamo oggi una grande opera di bene, di grande bene. Dire a voi, nostri lettori, i sentimenti del nostro animo nel momento in cui - certi di togliere dall'ossessione tragica della fame tante e tante creature - convalidiamo i buoni di prelevamento di questa o quella quantità di farina; dire a voi, che vivendo in Italia non conoscete cosa significhi per il popolo la fame, la vera fame, e dirvi l'orgoglio - l'orgoglio di fascista e di italiano - che a noi è derivato da poter questa fame placare, sarebbe impossibile.
Ma in ogni notte di ombra brilla una stella; se pur il chiarore dell'astro è vago e momentaneo. E nell'ombra in cui vivono le genti dalmate della zona affidata al nostro presidio, in quell'ombra che già da tempo è rischiarata dal fulgore delle fiamme legionarie, una nuova e più lucente stella si è accesa: è nata, all'ombra del tricolore, Romana Vittoria. E' nata, mentre ancora il verbo nuovo non si era completamente diffuso tra le genti dalmate - i dalmati del paese dal quale scriviamo - una creaturina di Iddio, il primo esserino che ha qua veduto la luce tricolereggiante.
Fu in una mattina della distribuzione viveri. La gente - uomini, donne e bambini - si affollava intorno al magazzino deposito, quando giunse la notizia: un esserino, una creatura viva e vitale aveva veduta la luce nlle ore grandi della redenzione dalmata.
Il Comando dell'89.o CC.NN. d'assalto provvedè immediatamente all'assistenza della puerpera; inviò, il capo delle Camicie Nere, gli alimenti necessari alla madre, alla piccola nata ed a tutti i componenti la famiglia. Ancora una volta l'Italia proletaria, quell'Italia veramente del popolo che noi amiamo, si rivelava in tutta l'innata gentilezza delle sue genti.
La vita nuova che si schiudeva all'avvenire, il primo, delicato, essere che vedeva la luce in un cielo di vittoria, la creatura che nasceva nella terra di San Marco redenta dal Littorio doveva e non poteva essere altro che un simbolo di bene.
Di un bene che si manifestò immediatamente nella sua espressione più bella: l'assistenza all'infanzia. Il rude quanto sensibilmente umano comandante del presidio - cioè il Primo Seniore dell'89.o CC.NN. - dispose e provvedè ad una festa dei bambini locali, dei futuri Balilla, delle Piccole Italiane di domani.
Quattro centurie di figli del popolo, quattrocento piccoli dalmati portanti palesi sul volto i morsi della fame, una moltitudine di creature martorizzate dalla ingiusta miseria, furono adunate nei pressi del campo ove le Camicie Nere di Siena e Volterra han sede per il loro compito di italianità.
Portanti in alto i tricolori della Patria - di quella patria che per essi è madre affettuosa - al canto degli inni italiani - appresi in pochi giorni - i bambini dalmati si riunirono giocondi in un vasto terrazzo dominato dal vessillo della redentrice Italia.
Descrivere lo spettacolo di questa infantile adunata è cosa impossibile alla nostra modesta penna. Ma comprendere la bellezza del momento in cui, ricevendo rancio e cioccolata, i piccoli gridarono la più e spontanea riconoscenza all'Italia, è cosa facile per chi abbia cuore e sensibilità di italiano.
Una legione di esserini scalzi e seminudi, tante coorti di futuri legionari, in una giornata per loro di festa, hanno appreso ad amare la Patria che farà di essi uomini degni di tal nome, hanno compreso - i piccoli che domani saran grandi - la grandezza dell'avvenimento storico che redime la loro terra. E, nel simbolico nome della loro ultima piccola sorella - Romana Vittoria - intravedono l'avvenire che per essi, come per tutti i dalmati redenti, sarà apportatore di pace e benessere.

Oggi, nella chiesetta del paese, la piccola prima nata dell'Era della redenzione ha ricevuto il Santo Battesimo.
Festa, festa grande tra il popolo e tra i legionari. E' sembrato che la creaturina fosse nata a congiungere vieppiù i nativi alle Camicie Nere; è parso, tra il giocondo dindolare delle campane, che la nuova vita unisse maggiormente l'Italia redentrice alla Dalmazia redenta.
Folclore paesano e festa di armi durante la scra cerimonia. Donne nei variopinti costumi ed uomini chiusi nella severa abbigliatura festiva che ricorda un pò i montanari del vicino Montenegro; ufficiali in alta uniforme (come può essere consentito dal momento) e camicie nere e soldati in assetto di guerra.
Ed il tempio della Religione si è illuminato di una viva luce quando la bandiera d'Italia e l'azzurro di Dalmazia hanno ornato dei loro fulgenti colori il campanile echeggiante di squilli festosi.
La chiesetta, non potendo ospitare la massa di popolo e di legionari, sembrava sorridere attraverso le luminose vetrate là presenti, e pareva benedire le genti dalmate ed italiane - cioè gli italiani - che si assiepavano nei suoi pressi.
Quando, dal Sacro Fonte, il liquido benedetto ha bagnato la fronte della piccola, primo figlio della lupa di Zernovic, gli assaltatori del ferreo 89.o e della quadrata 97.a mitraglieri hanno intonato la "preghiera del Milite".
Il canto, quel canto che entusiasma, fa fremere e piangere, si è diffuso, prima, fra le ristrette pareti del tempio cristiano, prorompendo, poi, all'aperto, sotto la volta azzurra del cielo, che ha il colore simboleggiante la fede dalmata.
E mentre le note della preghiera guerriera echeggiavano, mentre le campane stormivano a festa, mentre i vessilli, salutando la vita, sventolavano giocondi, Romana Vittoria - l'esserino nato sotto il segno della redenzione - riceveva il sacro Battesimo e, schiudendo la boccuccia ad un tentativo di sorriso, muoveva le rosee manine come a salutare la Vittoria Romana che echeggia nel mondo.


Dino Corsi

Il Telegrafo del 23 maggio 1941
Dalla Dalmazia redenta

Zarnovic (Dalmazia), Maggio
In questo paese, che nasce in una valle irrorata da acque sorgive e decorata dal verde dei lussureggianti frutteti e si estende, attraverso pinete, abetaie e tratti rocciosi su per i monti che fan da sentinella all'Adriatico, i primi legionari che giunsero furono le Camicie nere senesi della "97.a mitraglieri d'assalto".
Giunsero in un chiaro pomeriggio di questa Primavera entusiasmante, dopo una marcia lungo la litoranea che, da Spalato, porta al limite estremo di questa martoriata regione dalmata, oggi redenta in virtù della volontà fattiva, audace e guerriera dell'Italia di Mussolini.
In testa al Reparto - due centurie di uomini già provati al fuoco e ad ogni genere di fatiche e sacrifici - la "fiamma di combattimento", il nero drappo simbolo di tutti gli ardimenti, sventolava illuminata dalla luce del sole ed animata dal fuoco dei legionari, i quali, faccie rudi ed abbronzate, petti quadrati e portamento quanto mai fiero, percorsero le vie del villaggio al canto degli inni della Patria.
I nativi, le genti del luogo che due decenni avevano udito il peso della inumana schiavitù loro imposta dai serbi, guardavano con sorpresa, qualcuno con timore, al giungere delle Camicie nere. Si scoprivano tutte le teste, con gesto automatico; poche destre si sollevavano nel saluto romano e rarissime furono le bocche schiusesi in un detto di benvenuto.
Troppo, e troppo a lungo avevano sofferto i dalmati; troppe volte , dalla dominazione napoleonica al giogo di Belgrado - per non riferirsi che all'epoca moderna - la terra che fu madre a Niccolò Tommaseo aveva conosciuti e subiti i dolorosi sacrifici di questa o di quella conquista; troppo, oltre ogni umano limite di sopportazione, i dalmati avevano conosciuto il peso della schiavitù e sentiti i morsi della fame e vissuto nelle ristrettezze della miseria per poter gioire ad una nuova occupazione, per potersi entusiasmare all'arrivo di quelli che erano stati loro dipinti come i "barbari fascisti", quali esponenti e rappresentanti di un Regime di oppressione e tirannia.
Ma sono bastati pochi giorni, pochissimi giorni, a vincere ogni riluttanza, a far cscomparire ogni timore. L'Italia, ieri paventata e temuta e da taluni odiata, in virtù di una vile subdola propaganda antifascista, è oggi la grande Patria amata venerata ed invocata dalle genti dalmate, che, sotto il segno del Littorio, rinascono a nuova vita e, dopo secoli di schiavitù, assaporano la gioia che da all'uomo la libertà.
Quando, al loro giungere a Zarnovic, i legionari senesi della "97.a Mitraglieri d'Assalto" issarono il Tricolore tra i pini che fan verdi le pendici dei monti, quando la tromba, che in un'epica giornata aveva suonato il segnale di "aprire il fuoco" echeggiò negli squilli di "attenti", la popolazione, fredda e riservata, non capì il significato del rito sublime che si stava compiendo.
Troppe bandiere, senza diritto, avevano sventolato senza gloria sotto il cielo della Dalmazia. E gli uomini non credevano più. Non potevano credere. Avevano il diritto di non credere.
Ma oggi - e son trascorsi così pochi giorni che si contano sulle dita delle mani - quando il trombettiere senese da il segnale dell'alza bandiera, non solo gli occhi dei legionari brillano, ma anche quelli dei nativi luccicano di gioia e di riconoscenza.
Perchè l'Italia ha ormai già accolti sul suo seno materno i dalmati, perchè i dalmati hanno già compreso di avere infine trovata, anzi ritrovata, quella che loro - malgrado la inevitabile e, se si vuole, logica influenza croata sulla lingua - hanno continuato a chiamare "mamma".
Mamma Italia. Grande, divina mamma che, nel suo nome benedetto, affratella oggi redenti e rendentori e si fa amare, come non mai, da chi fu sempre Suo figlio e da chi Suo figlio è tornato ad essere


Anche in Dalmazia, nella loro vergognosa fuga sotto il pungolo delle baionette italiane, sono passati i serbi. E, dove sono passati i serbi, è miseria, fame.
Noi, per ragioni di servizio, abbiamo avuto luogo, in questi ultimi giorni, di percorrere in lungo e in largo le zone affidate al presidio dell'89.o Btg. CC.NN. di Volterra, dal quale, presentemente, dipende la 97.a Mitraglieri di Siena.
Abbiamo, al comando di una pattuglia di legionari, attraversata la valle e ci siamo inerpicati su per il monte, posando il piede su sentieri per capre e, talvolta, raccomandando l'anima a Dio sull'orlo di un precipizio. Ovunque lo stato di abbandono che caratterizza questa regione di martirio: ovunque la miseria, dovuta all'incuria del passato governo, e la fame - la fame nella più terribile ed angosciosa delle sue espressioni - cagionata dal passaggio dell'esercito serbo in ritirata, che tutto ha predato, tutto ha rubato.
In una località montana - agglomerato di catapecchie annerite e semidiroccate, covi di immondi insetti e sporcizia - ci si è fatto incontro il capo della misera comunità. Uno spilungone di quasi due metri di altezza e secco, allampanato, coi segni del denutrimento sul volto. Salutando a vecchio modo, togliendosi cioè il logoro cappello, ha detto una frase di benvenuto in cattivo ma comprensibile italiano: "Bene arrivato taliano fascisto, salute soldata di Mussolino".
Subito dopo, in un linguaggio dove il croato dei montanari si intramezzava alla nostra lingua ed al più puro dialetto veneto, ci ha spiegato che lui, combattente della Grande Guerra, già prigioniero in Italia, serba ed ha serbato buon ricordo di quella che oggi è la sua nuova Patria.
Abbiamo approfittato dell'occasionale interprete per rivolgere due parole buone ai derelitti che ci erano vicini. Uomini vinti e fiaccati da una vita di stenti e dalla continua tinuncia ad ogni libertà; donne dagli sguardi stanchi e dai volti lividi; bambini - quanti, quanti bambini, quante creature di Dio che l'Italia avrà figli e redimerà, e crescerà uomini! - macilenti, laceri, scalzi.
Tanta miseria, tanta povertà da far piangere, tanto umano, ingiusto male da far maledire i falsi principi democratici per cui, ed in cui, l'uno si ingrassa e l'altro muore di stenti.
A lungo - l'interprete traduceva le nostre parole - abbiamo parlato dell'Italia, del Duce e del Fascismo. abbiamo detto quello che in Italia, sotto la guida del Duce, ha compiuto il Fascismo. Valorizzazione dei lavoratori, benessere del Popolo, assistenza, maternità ed infanzia, dopolavoro, assegni familiari, Carta del Lavoro, bonifiche, scuole, sport, case popolari, latifondo siciliano (siamo arrivati anche a questo), graduale e col tempo definitiva abolizione delle distanze sociali, battaglia del grano, corporativismo...
E mentre noi parlavamo - nella perorazione della nostra attività di conferenzieri - ed il vecchio soldato austriaco traduceva, potevamo leggere negli occhi degli ascoltatori la sorpresa, dapprima, e poi la speranza; una speranza che sarà ben presto realtà.
Terminato il nostro dire, una voce di donna si levò a parlare: in croato. L'interprete tradusse le parole di una madre dalmata. Sono le parole che noi poniamo a chiusura di questo nostro pezzo, sono parole che i lettori dovranno ben meditare per comprendere come e quanto le genti sane della Dalmazia si sian rese conto della missione che l'Italia ha iniziata e porterà a compimento nella terra che fu ed è tornata sua.
La donna - madre di una nidiata di bimbi - disse: "Se il Signore, tanto buono, vi farà restare qui; se il Signore, tanto grande, farà comandare Mussolini; se il Signore, che ama gli umili, ci farà italiani, noi saremo felici e dimenticheremo le sofferenze del passato. Viva l'Italia!"


Dino Corsi

Il Telegrafo del 9 maggio 1941
Gli esploratori varcato il confine hanno fatto conoscere l'anima dei figli di Siena

Dal camerata e collaboratore Dino Corsi ci giunge quasta corrispondenza in cui è scolpito l'indomito spirito di ardimento dei militi del 97.o Battaglione CC.NN. d'Assalto, nell'atto di varcare il confine per misurarsi col nemico
In questo suo scritto il nostro Corsi narra l'episodio in cui trovò morte gloriosa il camerata Ettore Neri, che offrì generosamente il sangue a consacrazione del battesimo di guerra del Battaglione.
Nel trigesimo della morte di questa valorosa Camicia nera, ricorrente oggi 9 maggio, pubblichiamo lo scritto di Corsi, che contiene, malgrado il precipotoso corso dei vittoriosi avvenimenti, spunti di viva e palpitante attualità


dal fronte, aprile
La punta acciaiata del dardo audacemente legionario ha colpito il bersaglio: in pieno. Gli esploratori, quel manipolo di uomini votati all'ardimento e predestinati alla mortte hanno compiuto la loro prima missione guerriera e si son dimostrati degni della fiducia incondizionata che in essi riponevano i capi.
Tutto era calmo nel campo legionario quando l'ordine di formare la pattuglia giunse gradito quanto anelato da tempo.
In un attimo, il gruppo degli ardimentosi, disposti ad osare l'inosabile e ad affrontare il periglio, fu pronto; volontari fra volontari, gli arditi partirono con negli occhi la visione del mare amarissimo, con nel cuore la fede, con nell'animo la volontà di combattere.
Un autocarro, il vecchio amico autocarro di tutte le guerre e di tutti i fanti, caricò il peso sublime delle ardenti giovinezze lanciate dall'entusiasmo oltre ogni umano limite.
Eccheggiarono nelle vie del Carnaro le canzoni di guerra, e la pattuglia audace, al canto degli inni guerrieri, raggiunse il confine. Il cielo dell'eroica regione italiana, della martoriata regione, vibrava dello spasimo degli esploratori che, degni figli dei morti di ieri, si accingevano a rinnovare le gesta dei padri.
E l'anima grande di Siena guerriera aleggiava sulle teste dei figli, erette, cogli sguardi fissi verso la meta da raggiungere.
L'autista nostrano che guidava l'autocarro lasciò la sua macchina e si unì alla pattuglia dei prodi. Un ufficiale delle "Fiamme Gialle" gridò il suo "in bocca al lupo!". Pochi colpi della pinza tagliafili, e fu aperto il varco nel reticolato.
Carponi, i legionari strisciarono sul terreno avverso. Non li fermarono le scariche di fucileria, nè le raffiche della mitraglia. Avanti, avanti, sempre avanti, dentri stretti sulla lama del pugnale e mani serrate sulle bombe: avanti verso l'obbiettivo da raggiungere.
Il nemico, sorpreso dall'audacia del manipolo degli assaltatori, sgomentato dalla insistente aggressività di un nucleo di pochi, barcolla, non regge. Ed allora scattano gli arditi, volano le bombe, echeggiano gli "A noi!", si risolve vittoriosamente a nostro favore il primo episodio della tanto attesa guerra adriatica.
Il villaggio, obbiettivo dell'esplorazione, è in mani italiane. I morti nemici dicono l'aggressività legionaria. E, per la prima volta dopo cent'anni, un canto romano si leva sotto i cieli della Dalmazia.
Poi gli arditi rientrano. Fieri e contenti. Paghi di aver portato a termine la loro missione, orgogliosi per la sanguigna ferita inferta al loro corpo, quella gloriosa ferita che ha nome: Ettore Neri.
Ettore Neri, l' "esploratore", è il primo nostro caduto, è forse il primo caduto del nostro fronte. Povero grande Ettore! A te doveva essere riservato il destino di insegnarci a vivere la vita guerriera per bene imparare a morire; a te, nostro più che camerata ed amico, fratello, doveva incombere l'onore di offrire la giovinezza ardente per quell'Idea che ti sublimò ieri e ti glorifica oggi.
Scriviamo per te, Ettore, queste poche righe, oggi mentre crepita la mitraglia; pensiamo a te, Ettore, come il nostro eroe più bello; e promettiamo a te di vendicarti e di vincere.
Ti vendicheremo. Ti vendicheranno i tuoi "esploratori" e tuti i legionari senesi.
Sulla tua tomba che mani fraterne hanno oggi adornata di fiori, noi non spargeremo lacrime; su quella tomba, fatta dalle dure pietre del Carnaro, noi affiliamo i pugnali per la vendetta e la vittoria.

Dino Corsi

Il Telegrafo del 12 aprile 1941
L'ora del destino

Quota 367, aprile
L'ora da tanto attesa è arrivata. E' l'ora del destino. Del destino dei legionari, che si riconosce in quello della Patria e si raffigura nella storia delle terre italiane prossime alla redenzione attesa da secoli. E' l'ora della battaglia, dell'ardimento e dell'audacia che precede la Vittoria. E' l'ora che la nostra generazione sognò per anni ed anni, è l'ora di una nuova "Vittorio Veneto", è infine l'ora grande della redenzione dalmata.
Sebenico, Spalato e tutte le altre italianissime cittadine e borgate che si specchiano nelle acque dell'amarissimo mare, attendono oggi l'ondata legionaria che le liberi dal giogo slavo, le renda alla grande Madre adriatica e permetta, infine, agli alati leoni, oggi imbrigliati nei lacci della schiavitù di spiccare nuovamente il volo serenissimo delle grande Repubblica Veneta.
E l'ondata, di uomini, armi e volontà ferree, sta per travolgere il nemico e rivendicare il passato. Ogni passato. Tra non molto sulla Dalmazia redenta, magari col sangue, garriranno al vento del trionfo le fiamme legionarie. Ed una nuova pagina di storia sarà scritta. Scritta, la pagina della nuova storia, dai figli di coloro che venticinque anni or sono combatterono ove noi ci accingiamo a combattere e vincero ove noi vinceremo.
Soltanto, nei confronti di allora, nei confronti di quella gloriosissima epoca, la Vittoria non avrà le ali tarpate; e si librerà sugli adriatici cieli, in tutte le coste e su tutte le isole che Roma, prima, e Venezia, dopo, segnarono col loro marchio di civiltà, a dire la rinnovata potenza dell'Italia legionaria.

In linea, in primissima linea, le Camicie nere son pronte al balzo che le condurrà oltre confine, nella regione dell'Italica amarezza, nella zona dell'adriatico martirio.
In attesa dello sbalzo degno degli "assaltatori", i militi, spensierati quanto forti, vivono le loro ore con gioia e tranquillità. In tutti i campi dell'unità legionaria l'allegria domina incondizionatamente. Allegria per la guerra che stiamo per combattere, allegria per le eroiche giornate alle quali andiamo incontro, allegria per il nostro eroico destino che alfine ha sentito suonare la sua ora.
Più qua o più là, facenti capoluogo dai colli e specchiantisi nelle azzurre acque dell'Adriatico, le armi, gli uomini ed i cuori fan buona guardia ed assaporano nell'aree il profumo della pugna vicina.
Negli attendamenti e negli accantonamenti, ricoveri di fortuna per le truppe di prima linea, si respira in un'atmosfera nostrana che fa pensar quasi di essere a casa.
Là, dove è la sede del Comando di Battaglione, è un lembo di Siena con tutte le sue Contrade. L'allegria ha qui il suo regno. Si mangia, si bevem quando c'è da bere, e si canta sempre. Si canta così a squarciagola, che, ormai, anche a Belgrado, devono aver inteso che
"Nella Piazza del Campo
ci nasce la verbena"

Lungo lo schieramento dei vari reparti è la stessa cosa. Vi siano senesi puro sangue o sangimignanesi, si tratti di gente di Torrenieri o di Abbadia, di Piano o di Cetona, ovunque sono i figli della terra di Siena, le zone risentono della maschia spensieratezza legionaria, ed ai fiori olezzanti della primavera del Carnaro si aggiungono quelli della più bella primavera italica.
L'adattamento alla vita del campo è stato facilissimo, anche perchè i militi, nella quasi totalità, hanno conosciuto nel passato, in Africa o in Spagna, vita dura quanto l'odierna.
Unica preoccupazione materiale è per tutti quella di migliorare il rancio, di per sè stesso già buono, acquistare, con mezzi....talvolta illeciti, pollame e conigli da cucinare negli improvvisati fornelli di marca prattamente militare e procurarsi di che bagnare l'ugola essiccata dal canto.
Naturalmente, e per tutti, non mancano i momenti di nostalgia e di commozione; una donna, un bambino che passano per la strada, una campana che suona, la visione di una casetta che ne richiama alla mente un'altra lontana, l'eco di una nostalgica canzone...danno talvolta un fremito, fan brillare lo sguardo.
Ma sono attimi, istanti passeggeri. Una scrollata di spalle, un sorriso e, poi, in caso, una delle nostre schiette, forti, spontanee risate: ed, a conclusione, "La guerra è bella!"
Tanto, tanto è bella guarra! E maggiormante questa nostra guerra che combatteremoai più sacri confini della Patria, per rendere all'Italia i figli irredenti, per poter infine gridare col Poeta della nostra Rinascita: "Dalmazia! Dalmazia! Fosti, sei e sarai di Roma!"

Si avvicina la S.Pasqua. Memori del più grande sacrificio e della Divina Resurrezione, i legionari si accingono ad evocare col loro sacrificio, che preluderà la Redenzione della Dalmazia, la festività cristiana.
Da queste colonne, gli "assaltatori" inviano ai loro cari l'augurio di ogni bene, e la promessa che sapranno esser degni di chi, in ansia, attende da loro la Vittoria.

Dino Corsi

Il Telegrafo del 11 aprile 1941
Ricordando le nostre donne

Zona X, marzo
Non vi è nulla di più bello di una partenza tanto desiata, infinitamente sospirata ed infine realizzata in una bella serata di questa nostra guerriera primavera.
Ricordare qui, con disadorne parole, il momento del distacco dai nostri cari; rievocare le ore belle del bellissimo inizio dell'avventura più grande di nostra vita, sarebbe vano. Tutti coloro che scorrono queste righe, hanno vissuto quelle ore: e le hanno vissute da protagonisti. Legionari e popolo. Uomini e donne. Soldati e civili.
Ma le donne, le nostre donne particolarmente, più e meglio di tutti han sentita la grandezza del momento. Bravi, grandi, generose, le donne di nostra terra! Quelle donne che son madri e vedovi di Caduti; genitrici, spose, sorelle e fidanzate di combattenti, hanno, colla loro grazia, colla loro gentilezza, col sorriso amerevole delle loro labbra, rallegrato l'istante - sempre bello quanto triste - della partenza e dell'addio alle case e alle creature amate.
Ricordarle, ricordarle e ringraziarle tutte, non possiamo. Possiamo soltanto ripetere a loro, alle gentili esponenti del nostro ardimento, alle incitatrici dei legionari, le frasi che uno di noi disse partendo: possiamo soltanto ridire le parole dette da un "assaltatore" a quella, che per il suo passato patriottico, è detta la "squadrista": "Il garofano che ci avete donato unitamente al vostro abbraccio, l'ho chiuso in mezzo ad un'immagine sacra, dono della mamma ed alla fotografia di Dino Raus simbolo della mia fede, esempio per il mio domani; in esse, in quel fiore porpureo e, insieme al vostro ed al cuore di tutte le donne d'Italia, il simbolo della mia volontà. Di quella volontà che mi consentirà, e consentirà ai miei camerati, di tutto osare per la Vittoria immancabile".
Forse, nel commovente momento della partenza, le parole del legionario non furono precisamente quelle che abbiamo scritte. Comunque, l'animo di uno - espressione della massa - voleva e volle dir quello, anche se il discorso non fu troppo chiaro.
Resta però il fatto indiscutibile che, alla loro partenza, gli "assaltatori" sentirono pulsare il cuore e riconobbero il volto della Patria in quello delle donne che, predestinate al dolore, seppero e vollero più e meglio di tutti incitare i partenti al compimento del loro dovere.
E chiudiamo la prima parte di questa nostra affrettata corrispondenza coll'inviare alle donne nostre il saluto di tutti i componenti l'unità legionaria e col ripetere a loro - alle gentili creature - la riconoscenza di tutti i militi dalle nere fiamme per la manifestazione di affetto che esse, in uno slancio di patriottismo puro e di amore sincero, vollero prorompente a dire l'addio ai partenti.

Su e giù per monti e valli, i convogli dei carichi di fede e di ardimento hanno portato i legionari alle destinazione loro.
Canti guerrieri e canzoni nostrane, echeggianti per ore ed ore tra i colli e sui piani di tante belle contrade d'Italia; sventolar di fiamme ed ondeggiare di ardite nappe di neri copricapi al vento di vittoria che spira ovunque è la Patria; entusiasmo sulle tradotte e gioia e manifestazione di contento, che sta a dire la forza guerriera; questo, in sintesi, il nostro viaggio. Il viaggio che ha portato al luogo da mesi sospirato, il viaggio che si è concluso felicemente e con il tangibile resultato di aver aumentato nei cuori e negli animi la volontà di ardire.
Tratteggiare, sia pure in maniera succinta, gli episodi a cui il viaggio ha dato vita, sarebbe impossibile: dire del comportamento di questo o di quello, non è nelle e per le nostre forze. Diremo solo che il comportamento in genere è stato quello di sempre e che gli episodi son tornati a tutto onore di chi li aveva motivati.
Ragioni particolari, che il lettore - in virtù dell'odierno imperativo: "tacere" - ben comprenderà, co costringono a non dilungarci troppo in questo nostro primo scritto da una zona tanto lontana. Ed anche altre ragioni, di carattere puramente personale (scriviamo, stanchi quanto contenti, dopo tre giornate di utile lavoro, al lume di candela e seduti non su di una poltrona di velluto, rubando una delle poche ore al nostro riposo) fan si che la prima pagina di questo nostro terzo diario guerriero sia purtroppo breve.
L'unità nostrana è in linea; gli "assaltatori", memori dell'insegna che onora la loro fiamma son pronti a gridare l' "A noi!" di tutte le Vittorie. Fermi, al posto del dovere volontariamente impostisi, i legionari guardano lontano e verso le mete che raggiungeranno, verso la vittoria che si libra ad ali spiegati sui cieli dell'amarissimo mare; Vittoria che sarà nostra, sarà italiana, sarà un pò anche dei figli di una tanto a noi cara città.
Memori del giuramento prestato, stretti intorno alla "fiamma" che ricorda la terra, la casa, gli affetti lontani, gli "assaltatori" si accingono a tuto osare per il trionfo dell'Idea Fascista.
L'Italia, questa nostra Grande Madre, la Fede, questa passione dei nostri cuori, dicono a tutte le mamme e a tutte le innamorate - spose, fidanzate, amanti - che oggi noi, i legionari, i volontari dell'assalto e, se necessario, della morte, non siamo più loro: siamo figli della Patria, gli sposi dell'audacia, i fidanzati della battaglia, gli amanti della morte.
Ci perdonino le nostre donne e preghino Iddio per noi. Noi preghiamo l'Italia di farci, ad ogni costo, degni della sua grandezza.

Dino Corsi

LE CORRISPONDENZE DI DINO CORSI PER "IL TELEGRAFO" DAL FRONTE DEI BALCANI

 
 
Dino corsi dal 27 Marzo 1941 inizia con la corrispondenza dal fronte dei Balcani, la preziosa trascrizione di Francesco Manganelli ci permette di poter leggere le pagine giornaliere dei ragazzi e degli uomini senesi e non che si trovarono a combattere nel difficile fronte della Balcania.
 

Il Telegrafo del 27 marzo 1941
A non piegar l'insegna Siena insegna...

...e dice ai figli suoi in armi: Vincete! Vincete come vincesro i vostri padri, vincete come vinsero i vostri fratelli, vincete come voi stessi vinceste ieri e riaffermate ancora una volta la vostra Fede, che unita alla volontà di ardire e combattere, vi farà degni degli avi di tutte le epoche gloriose.
In piedi, i nero fiammti soldati dell'era novella, hanno giurato fede all'Idea, hanno giurato di vincere, si sono detti pronti a morire. stretti intorno ad una tricolore fiammeggiante fiamma di combattimento, gli "assaltatori" del 97.o han detta la parola che in sè è manifestazione di dedizione, di disciplina e di eloquente esaltazione dello spirito legionario: Giuro!
In quel giuramento non formale, gridato da mille voci di mille uomini coscienti di se stessi, del presente e del futuro, in quel spontaneo grido di assoluta dedizione al dovere, prorompente dai petti di chi è pronto a tutto dare e osare, è la viva forza degli "assaltatori" del 97.o.
Quel vecchio sempre ventenne 97.o - emanazione della "Fedelissima" Legione Senese - che oggi come ieri - coorte di entusiasmo e di ardire - anela il "via" che lo getti allo sbaraglio sulla via di quel mondo da conquistare e da redimere colla umana forza delle armi fasciste, è ancora una volta in piedi; forte nei ranghi per lo spirito dei componenti, più che forte di un Fede che è nel contempo dottrina ed incitamento, saprà dire di qual tempra sono i pugnali e come pulsano i cuori legionari.
.......


In caserma, in questa tediosa vita presidiaria, tanto necessaria quanto poco compresa da chi deve viverla, il 97.o si è riunito, amalgamato, istruito, perfezionato per la guerra.
Gran bella famiglia, quella dell'Unità Legionaria Senese! Gran bella famiglia! E, naturalmente, tutti maschi. Non i soliti maschi del "caffè del centro" o da "pubblico passeggio"; non gli omuncoli usi alle abitudini sedentarie di un tempo che fu; ma uomini, uomini veri, maschi nel più virile dei sensi e nella più veritiera delle espressioni.
Scernere tra i reparti i migliori, sarebbe impresa da Titani. Il 97.o (che noi, nostalgicamente, vorremmo ancora chiamare 'Valanga') è un perfetto amalgama di uomini, squadre, plotoni e compagnie. Tutti bravi, tutti belli e tutti brutti, come dice il comandante (che vuole gli uomini belli esteriormente e brutti - brutti nel senso di arditi - interiormente), il quale, pur non dicendolo mai, è come un padre dei figli diligenti, orgoglioso dei suoi legionari. E, il Comandante, scusi l'immodestia, può davvero esserne orgoglioso.
Tra i tanti figli di questa singolare quanto perfetta famiglia, prendiamo ed illustriamo per primi i componenti il "Plotone esploratori". Sono una "banda irregolare" : reduci tutti, dalle Guerre d'Africa o di Spagna, costituiscono la punta d'assalto di un battaglione di assaltatori. Abbiamo detto "banda irregolare", perchè loro, gli esploratori, come i vecchi "arditi" sono oggi le irregolarità nei confronti della vieta disciplina, come saranno domani i primi ad osare e a morire.
Il plotone esploratori, estremità appuntita del tagliente dardo legionario, sarà fra breve l'ardimento umanizzato e la volontà vivificata in chi, primo oggi a far cagnara, sarà domani primissimo a tutto dare per la Vittoria.
La prima compagnia del Battaglione, che ha nelle sue fila rudi rurali di Rapolano, Poggibonsi, Sinalunga e Torrita di Siena, è uno dei forti reparti che danno lustro all'unità legionaria.
Silente, la prima, opera da brava e fa onore all'ordine precedenza che le è stato sulle consorelle. Ragazzoni robusti, petti quadrati, muscoli solidi, fede entusiasmo e volontà; reparto di umili lavoratori, che saranno domani gli artefici più validi della nostra Vittoria.
La seconda è...la seconda..."Bella forza!" diceva giorni fa uno della prima, "con quel comandante!". Noi, qui, non vogliamo parlare del Comandante (e meriterebbe tanto di parlare di lui), ma dei militi. Sono, le Camicie nere della seconda, ("Seconda a chi?", par di sentirsi chiedere da un certo Centurione), parte di Torrenieri e parte di Piancastagnaio, più tre del Vivo, ragazzi diversi nel temperamento, ma comunque tutti uguali nella e per la dura disciplina guerriera. Quelli di Piano, naturalmente, sono un pò diciamo così...pianesi: irrequieti, esuberanti...
Ma il Comandante di compagnia (benedetto questo grand'uomo) li ha imbrigliati e, con polso ferreo, li tiene oggi in mano, in attesa di lanciarli domani sui sentieri della guerra. E la seconda compagnia, Torrenieri, Piano, il Vivo, è...la seconda...e solo la seconda.
Logicamente dopo la seconda viene la terza. Che roba!...Sono in primo piano quelli di Abbadia San Salvatore: è tutto detto! Cari, bravi, generosi e...sono "badenghi". Sono i figli della nostra montagna, sono volontari di tutte le guerre, sono gli arditi delle miniere, sono gli eroi del lavoro, come lo furono, eroi, della guerra di ieri e lo saranno domani.
Gli ascianesi, sempre della terza, affiancati ai camerati della montagna, portano nella bella compagnia l'impronta di una zona nostrana tra le più laboriose e la più fascisticamente a posto.
E nella "terza", poi, vi sono - fiaccole ardenti di entusiasmo - i "tre moschettieri". Tre senesissime "sagome", tre "tipi": uno dal petto azzurrato, l'altro, vecchio legionario, oberato dall'intemperanza, e l'ultimo, infine, secco come un merlo, che attende il fuoco per riscaldar gli ossi della sua persona.
Ultima, in ordine di citazione, prima in ordine di merito (...apriteci le porte che passano i mitraglier...) viene la quadrata, la ferrea, la...(basta con gli aggettivi e collo spirito di corpo) compagnia mitraglieri. Ragazzi - magari di trent'anni e più - quadrati, svegli, energici e, modestia a parte, belli, belli, si: proprio belli, i mitraglieri! Belli di quella bellezza quasi bestiale - faccie nere e rudi - che fa intravedere la Guerra e fa dire alle donne: "Quelli cono uomini".
E sono, i mitraglieri, la colonna del Battaglione, gli "assaltatori" che, uniti ai camerati delle altre compagnie, protesi in una gara di ardimento, scriveranno, se necessario col sangue, pagine di eroismo.
E gli "assaltatori", la "prima", la "seconda" e la "terza" - fiamme dello stesso ardimento - appoggiati dal fuoco delle "Breda", voleranno all'assalto per realizzare l'odierno, il nostro, il mussoliniano imperativo: Vincere!
.......


Il Battaglione, succintamente tratteggiato nelle righe che precedono, ha avuto l'onore di mostrarsi al popolo di cui è pura emanazione.
La "Milizia" ha dimostrato in una radiosa primaverile mattinata, quella che è la "Guardia armata della Rivoluzione". Pronta, la "Guardia", a ben operare sui fronti della Guerra, come ha figurato - in Siena e per Siena - in una manifestazione di disciplina, preludio alle più belle manifestazioni guerriere.
Siena, attraverso le donne fasciste, prendendo ad araldo la femminile gentilezza delle più gentili creature di nostra terra, ha offerto agli "assaltatori" del 97.o la fiamma di combattimento.
Se la fiamma che arde, che divampa, che strazia e vivifica nel petto il cuore dei legionari potesse manifestarsi in una forma tangibile, il cielo di Siena sarebbe oggi colorato da un vermiglio bagliore, che ai luminosi meriggi della Primavera guerriera, aggiungerebbe l'alba radiosa di una prorompente, combattiva Estate.
Ma gli "assaltatori" hanno avuta la fiamma di combattimento. Ed oggi è questa la sola fiamma che per essi arde e simboleggia la Vittoria.
Sulla fiamma, dono di madri, spose, fidanzate e sorelle, sta scritto:
A non piegar l'insegna
Siena insegna

E c'è, sull'alto dell'asta, uno straccio rosso, un serico straccio rosso, un brano di quella bandiera che gli esuli senesi, gli ultimi difensori della Repubblica, portarono in Montalcino a sventolare sulla Rocca per dire al mondo di allora cosa e come fanno i figli di Siena.
Ed i figli della vecchia ghibellina Repubblica, forti del retaggio di gloria che a loro viene dal serico lembo di un giuramento, inquadrati sotto le insegne del Littorio, memori della romana origine della loro Città, ripetono, come giuramento, il verso che a caratteri d'oro orna la "Fiamma" del Battaglione:
A non piegar l'insegna
Siena insegna

E oseranno i Legionari, e moriranno, ma, vivi, l'insegna non si piegherà.

Dino Corsi

martedì 12 maggio 2015

Dino Corsi e Silvio Gigli..........


Grande l'amicizia e la stima reciproca tra i due, nella foto che segue (tratta dal libro dedicato a Silvio Gigli scritto da Luca Luchini - Silvio Gigli da Siena Ed. Il Leccio)  i due a passeggio in Via Pianigiani.